Megaride è l’isola minore del Golfo di Napoli su cui sorge il Castel dell’Ovo. In origine separata dalla terraferma da un breve braccio di mare, ma oggi tutt’uno con essa.
Il mito antico dell’isolotto di Megaride parte evocando come esso fosse, nell’Ottocento, il luogo del mare più tempestoso del Chiatamone, la zona di Napoli tra il mare e la parte rocciosa del monte Echia. L’isola era ricoperta da una fiorita superficie di aranceti, canneti e bassissimi arbusti tipici della macchia mediterranea. Megaride fu agli albori, giaciglio delle Nereidi e delle Driadi, le figure mitologiche delle ninfe marine e vegetali.
Ma, secondo leggenda, a sconvolgere la tranquillità e la sacralità del braccio di terra fu Lucio Licinio Lucullo, un forte guerriero dell’età imperiale romana. Lucullo edificò qui ciò che fino all’epoca tardoromana fu celebre come Castrum Lucullanum: la Villa-fortezza di Megaride.
La villa ospitava una tra le più ricche e selezionate biblioteche private dell’antichità, allevamenti di murene, frutteti di ciliegie provenienti dalla Persia e da Cerasunta, città dell’Anatolia (odierna Turchia), da cui proviene il nome napoletano del frutto, “cerasa”. Lucullo infranse la dimora delle ninfe oceanine e vi disegnò personalmente, i prati, i boschetti di rose e i gradini che scendevano fino al mare.
La dimora era ormai sua: Scacciati gli dei e la loro corte, Lucullo sistemò le sue bellissime schiave in giardini degni di un imperatore, murene nei vivai delle grotte di coralli e di alghe verdi, i più rari ed esotici volatili nelle uccelliere, i più colti e raffinati musicisti negli archi a tutto sesto.
La Villa di Megaride fu nota per le sue feste e baccanali, per le sue magiche luminarie, per i suoi gustosi banchetti, per le sue maestose scenografie teatrali; ma, ancor di più, lo fu per la bellezza mondana che ospitò: Servilia, la sua bellissima moglie, sorella di Catone. La sua bellezza fu tale, da far disperare poeti e artisti, tutti gli ospiti del mecenate, dai garzoni ai nobili romani; e perfino gli dei.
“E Servilia distesa sul lettuccio, vestita di stoffa tessuta d’oro, lasciandosi sventolare dalle schiave fremendo di piacere alla brezza marina, guardando distrattamente la ridda delle danzatrici, mormora fra sé, sono io, sono io la sirena! E l’aria mormora anch’essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti: è lei, è lei la sirena.
Servilia quando solleva un cespo di fiori è bella come Flora; Servilia, quando sceglie in un cestello la pesca matura, è bella quanto Pomona; Servilia quando porta sui capelli la brillante mezzaluna e al fianco la faretra, è bella quanto Diana; quando senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo dal bagno, tutta stillante profumi, si lascia asciugare dalle schiave e s’avvolge nella tunica bianca, è… – …bella come Venere – sussurra lo schiavo innamorato.
– Più bella di Venere – dice, col suo olimpico orgoglio, Servilia. Il che è udito dalle attente ninfe oceanine e Venere sa che Servilia l’ha offesa e Poseidone questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante”, condannando l’isolotto di Megaride all’erosione e alla futura scomparsa.
“Leggende napoletane” di Matilde Serao.
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